A 109 chilometri da Leh abbiamo valicato il Taglang La (5.328 metri), il secondo passo carrozzabile più alto al mondo dopo il Kardung La (5.602 metri), passo che si trova in Ladakh nella Nubra Valley. E’ poi iniziata la discesa a picco verso Leh, abbiamo incontrato i primi segni che c’indicavano che questa era una regione buddista. Si vedevano monumenti eretti a memoria di santi buddisti, simili alle nostre cappelle, erano i Chorten che non sono restaurati, ma lasciati all’inclemenza delle intemperie. Sembrano lì per lì per crollare e se ne intravede l’anima in mattoni. Quelli recenti invece, sono ricoperti di un intonaco bianco e risplendono sotto un sole fiammeggiante. Sono cambiate anche le montagne: alcune hanno forme e colorazioni incredibili, talmente modellate dal vento da formare, strette intercapedini che le fanno assomigliare a “fette di panettone” o a coltelli lunghissimi e affilati.

Alti picchi di un colore rosso granata si specchiano nel fiume, tutti contornati da prati degni dei migliori campi da golf, con cavalli ed asini che brucano e si abbeverano al fiume. Quando è iniziata la valle dell’Indo, la valle si è allargata e sono comparsi i pioppi, dal finestrino ho intravisto i monasteri di Stakna, Tikse, Shey, e poi Leh, la capitale del Ladakh. Leh, dopo tre giorni d’autobus, nella rossa luce del tramonto, è ai miei piedi.

Leh

Appena arrivato mi sono incamminato verso il quartiere di Changspa, per raggiungere l’Oriental Guest House, l’alberghetto consigliato sia dalla L.P. che da Ben, il ciclista svizzero incontrato a Recong Peo. All’arrivo, tutti mi hanno accolto con un “joole” (parola che si pronuncia joo-lay) e che vuole dire allo stesso tempo “ciao, arrivederci, per favore e grazie”! Non ho fatto in tempo a chiedere se c’era una camera per la notte, che subito Nawang, la figlia del proprietario mi è venuta incontro accogliendomi anche lei in questo modo. Ad ogni passo che facevo, tutti mi riverivano così. Terminati i saluti, ho trovato un letto in uno stanzone, che è cucina (ci sono bicchieri, tazze, pentole e un’enorme stufa), dispensa (ci sono patate, tsampa e numerose scatole di fiammiferi), dormitorio (ci sono tre letti), con la promessa che per domani, avrò una “vera stanza” tutta per me. Mancano sia la corrente che l’acqua calda: è la solita storia, come a Recong Peo, Tabo o alla tendopoli di Sarchu.

In cucina, dopo un chai al cardamomo ho visto dei tortelloni che stavano per essere messi a cuocere in un pentolone. Mi sono seduto nel salone refettorio illuminato dalle candele, aspettando il loro arrivo. Ogni volta che Nawang porgeva il piatto ad un commensale, gli offriva anche un sorriso e un “joole”. Fra me e me pensavo a questi poveri tortelloni, infatti, poterli mangiare con un sugo al ragù o conditi col burro sarebbero stati più appetitosi, invece li vedo galleggiare in quest’insipida brodaglia di verdure, ma queste, sono solo “farneticazioni” ad oltre 3.500 metri d’altezza! Dopo due bis, sono andato a dormire.

Mi sono svegliato all’alba con una doccia gelata e sono andato allo Shanti stupa, che si trova su una collina ai piedi della Guest House, per vedere Leh dall’alto. Per arrivare in vetta occorre percorrere una lunga gradinata, la L.P. metteva in guardia i nuovi arrivati a Leh in questo modo: “It on foot, there is a very, very steep set of steps – not be attempted if you have just arrived in Leh!”. Dalla cima la vista è fantastica, spazia sulla valle e si odono suoni e canti provenire dai templi. Il cielo è blu, lo stupa è di un bianco accecante e per la tanta luce, lo si può guardare solo per pochi attimi. Attorno ci sono immagini di Buddha, è una festa ed un’esplosione di colori. Su tutti, i gialli, l’arancio ed il rosso: questo è il Ladakh che volevo!

Dopo la colazione con chai e pane tibetano, ho registrato l’arrivo alla Guest House. Questa è una operazione che fa perdere un sacco di tempo. I dati personali, compresi il numero del visto e del passaporto vanno prima riportati su un gran libro (di dimensioni simili ad un atlante geografico) e poi su uno più piccolo. Sono poi andato all’ufficio dell’Indian Airlines per cercare di prenotare il volo per Delhi: ero rapito dalla valle e dalla quiete di Leh e volevo risparmiarmi quattro giorni d’autobus. L’ufficio, circondato da pioppi e da canali è sperduto nella campagna, ci sono tante persone alla ricerca di un biglietto, il silenzio è assoluto e non succede nulla. Nell’ufficio (nel quale si sa quando si entra, ma non quando si esce), ci sono due file: gli Indiani cercano di non rispettarne nessuna e s’infilano ovunque. La lentezza è dovuta al continuo blocco dei terminali, la mattinata è così volata fra i “black out” dei computer. Sono riuscito ad ottenere non il biglietto, ma una prenotazione in lista d’attesa: ero il numero tre in business class e il quarantasette in classe turistica, l’ottimismo è subito scomparso. Ho deciso di rinunciare al volo e per sfogare la delusione, ho mangiato un piatto di momo del Dreamland Restaurant.

Nel pomeriggio ho camminato per le stradine di Leh ed ho visitato i mercatini organizzati dai rifugiati tibetani. I mercanti mi facevano ampi sorrisi sperando in qualche acquisto, avevo solo voglia di guardarmi attorno, tutti erano gentili e bastava un “joole” per ricambiarli. I più agguerriti erano invece i Kasmiri, i “mercanti di Srinagar” che avevano bei negozi lungo la “Fort Road” e la “Main Bazar Road”, con scritte tipo “Amex” o “Visa” sulla porta d’ingresso. Appena ti vedevano, piombavano addosso come avvoltoi, con un sorriso smagliante ti chiedevano se volevi entrare nel loro negozio, non per comprare, ma solo “only to look”! Poi sono tornato alla Guest House e finalmente ho fatto una doccia calda.

La mattina seguente ho deciso di lavare i vestiti, avevo chiesto al proprietario della Guest House se c’era un servizio di lavanderia, lui con il solito sorriso e il solito “joole” mi aveva detto che l’unica possibilità era di lavarseli da soli. Così mi sono recato al lavatoio, che era un semplice masso di granito. Con le mani immerse nell’acqua gelata del ruscello ho iniziato a combattere contro lo sporco dei vestiti. E’ stata una dura lotta: ero armato di spazzolone e sapone da bucato. Dagli indumenti usciva acqua nera a fiotti, che contribuirà ad inquinare il delicato ecosistema Himalayano. Poi ho fatto colazione. La cucina è una piccola stanza, tutti preferiscono stare ammassati qui, piuttosto che andare al salone mensa. Si sta seduti su basse panche, mettiamo i gomiti nei piatti dei vicini, mentre cerchiamo di adempiere il rito del “breakfast” con pane tibetano, omelette o pancake, sorseggiando black tè, jasmin tè o il più classico chai.

Dopo colazione mi sono incamminato verso la stazione dei bus per raggiungere il Gompa di Matho: la L.P. diceva che il bus era alle nove, il mio albergatore alle otto, ma il minibus era partito alle sette e mezza. Ho così variato programma: oggi andrò al monastero di Tikse e domani a Matho. La stazione degli autobus è un grande spiazzo: c’è qualche bus disposto a casaccio, non esiste né biglietteria né ufficio informazioni e l’unica “chance” è di trovare un indigeno che ti dia una mano, tutto sembra asettico e nessuno “urla” le destinazioni. Non si odono nemmeno i trilli di fischietto che annunciano le partenze, sembra che gli automezzi non partano mai. Ho trovato posto sul minibus per Tikse: siamo partiti quando non poteva entrarci più nemmeno uno spillo. Ci sono pile di bagagli, cesti di verdure, confezioni d’uova e tante persone, ad ogni fermata la gente aumenta. Dopo una brusca frenata, le uova sono finite sul cruscotto ma non si sono rotte, vicino al pedale della frizione, hanno infilato dei pezzi di carne fresca avvolti in carta da giornale, in braccio al guidatore invece, c’era un bambino.

Tikse Gompa

Il Tikse Gompa assomiglia al Potala di Lhasa in scala ridotta, il panorama è spettacolare, come l’interno, in legno e tutto affrescato. E’ un luogo capace di infondere pace e tranquillità. Ci sono gli oggetti utilizzati nelle preghiere, sono sparsi in giro e sembrano collocati senza un ordine logico: gli strumenti musicali, la libreria con i testi sacri avvolti in panni di seta, le ciotole contenenti l’olio che brucia e sembra non finire mai, le scodelle di legno per il chai e lo tsampa, thangka e statue lignee. Quando qualche persona entra, spezza quest’atmosfera incantata. Solo il silenzio e la penombra lo rendono unico.

Terminata la visita a Tikse mi sono incamminato verso Shey, ci sono un Gompa e la vecchia residenza estiva dei re del Ladakh. Verso mezzogiorno è arrivato un minibus che mi ha risparmiato cinque chilometri di strada. A Tikse ho visto un ristorantino, mi sono seduto sotto i pioppi e ho ordinato birra e thuppa che ho divorato in meno di sessanta secondi. Attorno, c’erano mucche ed asini che brucavano l’erba e mussulmani che sorseggiavano birre ghiacciate. La salita verso il Gompa è stata più dura del previsto perché camminavo sulle pietre roventi e faceva un caldo terribile, inoltre la birra bevuta ad oltre 3.500 metri d’altezza aveva iniziato a provocare i suoi venefici effetti. Pur avendone bevuta solo una bottiglia, era come se mi fossi ubriacato.

Il Gompa non mi è piaciuto ed il palazzo era in rovina, era bella solo la statua in rame dorato del Buddha Shakyamuni, che è la più grande della valle. Sul bus per Leh mi sono addormentato, poi, dopo essermi lavato più volte testa e faccia, sono andato al bazar. Mentre bevevo una bottiglia di Sport Cola (un surrogato della Coca Cola), mi sono messo in mutande per fare aggiustare i calzoni che si erano strappati a Shey. In un “barber shop” mi sono fatto radere, come a Manali il barbiere ha iniziato una serie di strane operazioni: mi ha massaggiato il volto con una pietra ed ha terminato spruzzandomi una lozione alcolica, la mia pelle era in fiamme. Tornato alla Guest House c’era pizza per tutti ed era buona: non mi sarei mai aspettato una “margherita in versione Himalayana.

 

                                    Glossario   1   2   3   4   5   6   7   8   9   10    | Diari Index